In quella porzione di territorio a 1.050 metri sul livello del mare, sotto il Monte Faito (1.455 metri) che la protegge come un mantello, si estende il piccolo borgo di Santo Stefano (una delle 6 frazioni del comune di Sante Marie in provincia de L’Aquila), con una popolazione residente di 146 abitanti.
Un borgo che affonda le radici agli albori dell’Anno Mille dell’era cristiana quando viene menzionato nella Bolla del 31 maggio 1188 di papa Clemente III (Paolo Scolari) che elenca al vescovo Eliano tutte le chiese di pertinenza della Diocesi dei Marsi e fra queste menziona anche la "ecclesia Sancti Stephani in Caprili".
Ebbene in questo luogo della montagna abruzzese, che come scrive Ignazio Silone per la sua Pescina dei Marsi è «povero di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese…..La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata», da molti anni oramai come il succedersi delle stagioni e delle feste religiose si svolge la “Festa ‘ejji canistri” (dei canestri nel dialetto locale). Una sacra rappresentazione della vita che culmina nell’unione fra l’uomo e la donna nella Chiesa parrocchiale che aveva il suo rito laico nel pranzo nuziale.
Non dobbiamo scomodare Mosè, che fu trovato dalla figlia del Faraone dentro una cesta sospinta dalle acque, per capire l’importanza di questo recipiente di vimini che ha accompagnato la vita quotidiana delle persone per secoli.
Mi affascina esplorare, scandagliare questo microcosmo che è Santo Stefano, sentire il respiro del tempo dietro quelle antiche mura che “parlano” al viaggiatore attento.
Ci sono luoghi in cui il viaggiatore non trova la chiave per entrare in quel mondo. Noi per entrare nel mondo di Santo Stefano abbiamo la chiave dei “canistri”, un piccolo grande cesto che contiene il principio di una vita nuova da affrontare in due.
Dentro i canestri di vimini di grande e media dimensione veniva messo ogni ben di Dio culinario (pasta, pagnotte di pane cotto al forno del paese, uova, polli, abbacchio, bottiglie di vino e tanto altro); e la grandezza del canestro certificava agli occhi della gente sempre curiosa il grado sociale degli invitati alle nozze: ricco, benestante, povero ma dignitoso.
Oggi quella processione di partecipanti che portavano il giorno prima il canestro nella casa dello sposo o della sposa (per la sposa soprattutto corredo trasportato su cavallo), il cui contenuto serviva per preparare il pranzo di nozze nella casa dello sposo, non si svolge più perché il pranzo lo si fa nei più rinomati ristoranti, qualcuno anche con lo chef stellato.
I pesanti canestri venivano messi sulla testa della donna che, tutta vestita a festa con un equilibrio da destare stupore e ammirazione, procedeva spedita verso la casa dello sposo o della sposa per sistemare il canestro sopra lunghe tavole addobbate in una sorta di esposizione.
A Santo Stefano, il paese della Marsica, de L’Aquila, dell’Italia, questo rito avveniva con semplicità, con una fraterna partecipazione, di gioia condivisa, e con rispetto.
Oggi quel modo semplice della vita rivive attraverso l’annuale appuntamento del 10 agosto con la “Festa ‘ejji canistri”, quasi a volersi riprendere il passato, in questa manifestazione semplice ma ricca di riti simbolici che sa di antico, di cose buone, per consegnarla alle nuove generazioni. Santo Stefano val bene un “canistro”.
Foto ©Enzo Di Giacomo